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ROBERTO SAVIANO OSPITE DI LUCA CASADEI NELLA NUOVA PUNTATA DEL PODCAST “ONE MORE TIME”

Lo scrittore, giornalista e sceneggiatore Roberto Saviano è l’ospite della nuova puntata del podcast “One More Time” di Luca Casadei, prodotto da OnePodcast. La prima parte dell’intervista è disponibile da oggi, venerdì 17 maggio, su OnePodcast e su tutte le piattaforme di streaming audio.

Dall’uscita nel 2006 del libro “Gomorra” – che a oggi ha venduto 10 milioni di copie in tutto il mondo - la vita di Roberto Saviano è cambiata per sempre: diventa famoso, è costretto a vivere sotto scorta e ad allontanare i suoi affetti. Ma chi era prima Roberto Saviano? Lo scrittore, in questa prima parte dell’intervista, racconta a Luca Casadei della sua infanzia vissuta nei difficili quartieri di Napoli e di come entra a contatto, fin da piccolo, con la Camorra e con il codice mafioso. Si sofferma su fatti, come l’omicidio di don Peppe Diana, che da adolescente fanno maturare in lui l’esigenza di parlare, di opporsi alla criminalità organizzata; e ancora ripercorre le prime fasi della sua carriera da giornalista e gli anni della faida di Scampia, segnati da cinque, se non più, esecuzioni al giorno. Infine, racconta a Luca di quando ha iniziato a scrivere il libro “Gomorra”, delle conseguenze che ha dovuto affrontare e della sofferenza che prova al pensiero di aver distrutto la vita delle persone che gli stavano accanto.

Nella seconda parte dell’intervista, disponibile prossimamente, Roberto Saviano approfondirà alcuni episodi cruciali legati alla sua lotta antimafia e si aprirà con Luca Casadei, affrontando questioni più intime, come le difficoltà di vivere sotto scorta, il suo sentirsi infelice e spesso solo.

Sulla sua infanzia e sulla sua adolescenza, racconta: «Ero un bambino allegro, poi ho avuto un’adolescenza cupissima, piena di dolore interno e di ansia. Era una sensazione proprio di mal di vivere, vivevo delle situazioni nel mio contesto culturale tostissime: ammazzano don Peppe Diana, ammazzano Federico Del Prete. Non avevo neanche 15 anni: erano cose enormi che mi sconvolsero. Erano anni in cui c’erano 300, 400 morti l’anno: una guerra civile. Da quando sono nato, il numero di morti nella sola zona dove sono cresciuto, superava quello di tutti i fuochi d’Europa: il terrorismo basco, quello dell’Irlanda del Nord, delle Brigate Rosse. Questo ha influenzato la mia visione del mondo. Passando in un punto o nell’altro, dicevo: “ah qua è morto uno”».

Su come entra presto a contatto con il codice camorrista, contro cui nessuno osa andare: «Una volta a un pranzo domenicale con mio padre e mio fratello, in un ristorante molto noto della zona di Castel Volturno, entrano dei boss importanti. Uno di questi è l’uomo che mi condannerà, io l’ho visto per la prima volta a 14 anni. Mi rendo conto che mio padre è nervoso perché, quando si siedono al tavolo vengono immediatamente serviti. Noi stavamo aspettando da più di un’ora. Quando dobbiamo pagare il conto, il cameriere dice: “tutto a posto, hanno pagato loro: vi hanno pagato il disturbo” e mio padre stupito dice: “è il codice, così ci si comporta”. Lui riconosce la parte bella del gesto ma l’altra parte del ruolo lo impaurisce: questi mondi lo hanno sempre terrorizzato».

Sull’evento che ha fatto scaturire in lui l’esigenza di intraprendere la lotta alla criminalità: «La morte di Don Peppe Diana mi ha segnato. In chiesa nel giorno del suo onomastico, così ogni volta che c’è San Giuseppe ci si ricorda che è stato ammazzato Don Peppe, non più il Santo. Arrivano: “chi è Don Peppe?”, “io” e gli sparano in faccia, più colpi. È morto un ragazzo prete che diceva: “io non posso portare avanti la mia attività pastorale, senza denunciare tutto questo. Bisogna prendere parte” e questo mi entrò dentro: scegli sempre, poi magari ne paghi le conseguenze, ma scegli sempre».

Sugli inizi da giornalista: «La prima volta che entro in un giornale sento una cazziata a un cronista che aveva consegnato tardi e il suo caposervizio gli dice: “la prossima volta che mi consegni con due ore di ritardo, ti sbatto a occuparti di camorra”. Occuparsi di queste cose era schifo. Il sogno dei giornalisti era di parlare di politica, io invece penso che la guerra che stiamo attraversando noi, che viviamo nelle strade, sia fondamentale da raccontare. Scrivo su un camorrista e appena esce l’articolo mi sfondano il garage di casa. Loro avevano semplicemente ricevuto l’articolo e mi avevano dato il segnale: “ma che fai?”. Dovevo sentire paura, ma non la sentivo. Pensavo: “hanno paura di me” e questa cosa mi piaceva».

Sugli anni della faida di Scampia, segnati da innumerevoli esecuzioni ogni giorno: «La faida di Scampia: due, tre, quattro, cinque morti al giorno. A volte arrivavi che c’era la vittima ancora viva a terra. C’era molta ansia perché, quando il bersaglio non muore, spesso tornano i killer. Succedeva, infatti, che arrivavano le autoambulanze, lo vedevano ancora vivo e se ne andavano perché i killer entravano in autoambulanza e sparavano in testa al ferito. Le esecuzioni sono velocissime, non sono sceniche, si avvicinano: “Boom”, “ma chi è stato? Non ho idea”. Vedo ragazzini piccoli, di 15,16 anni, armati disposti ad ammazzare per 500 euro. Quando entri in un’organizzazione criminale hai un mensile, hai la tredicesima: c’è tutta una struttura codificata, man mano che cresci con l’età ti danno più soldi, cambiano gli orari di lavoro. Come in un’azienda. Un omicidio ha un’indennità di 2500 euro, se è molto grosso 5000 euro. I ragazzini prendevano molto meno».

Su “Gomorra”, edito da Mondadori, e sul successo: «Io inizio a scrivere brani di Gomorra su Nazione Indiana, un sito letterario che all’epoca era letto da tutti gli editor di Italia. Mondadori mi manda direttamente il contratto, senza neanche ricevere il libro e mi butto a capofitto per finirlo. Oggi, se tornassi indietro, non farei proprio Gomorra, mai. Il libro viene pubblicato, non esplode subito, ma fuori se ne parla. Fin quando vado in televisione, mi invita Daria Bignardi e lì qualcosa cambia: torno a Napoli, scendo dal treno e vedo che alcune persone mi indicano. Poi cambia tutto e il libro inizia a vendere».

Sul peso che sente per aver distrutto la vita delle persone che aveva accanto: «Io per via delle mie scelte ho rovinato la vita delle persone che avevo vicino. I miei amici, e all’epoca la mia ex fidanzata, continuano a essere me. Su di loro riversano pregiudizi, domande, pressioni. Ho dentro di me un peso gigantesco, che non mi lascerà mai: le mie scelte hanno distrutto me, ma hanno distrutto soprattutto chi mi è intorno. Hanno dovuto rispondere al mio posto. Immagina una persona che continuamente è sollecitata: “ma perché Roberto ha detto questo?”, “Ma perché ha scritto questo?”. Mi è dispiaciuto molto anche per mia madre perché a un certo punto viene licenziata, a un certo punto era “la madre di Roberto”. Io ho fatto una cosa, non so se l’ho fatta bene, ho iniziato a sparire: “vi lascio così tornate alla vostra vita”».